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Imprese femminili accelerano su digitale e green, ma 1 su 2 non investe 

Quanto a voglia di innovazione le imprese femminili hanno una marcia in più: lo dimostra il V Rapporto sull’imprenditoria femminile, realizzato da Unioncamere in collaborazione con il Centro studi Tagliacarne e Si.Camera. La ripresa post-pandemia ha convinto infatti un 14% di imprese femminili a iniziare a investire nel digitale (contro l’11% delle aziende maschili), e un 12% a investire nel green. A queste si aggiunge un 31% che in questi anni ha aumentato o mantenuto costante gli investimenti in tecnologie digitali, e il 22% che ha fatto altrettanto nella sostenibilità ambientale.
Le donne d’impresa, quindi, si sono lanciate nella duplice transizione che le politiche europee sostengono con forza, ma non senza difficoltà. La metà delle imprese femminili ha interrotto gli investimenti o esclude di volerli avviare nel prossimo futuro. 

A fine giugno un milione e 345mila attività guidate da donne

A fine giugno 2022, l’esercito delle imprese femminili conta un milione e 345mila attività, il 22,2% del totale delle imprese italiane. Questo universo ha caratteristiche proprie rispetto alle imprese gestite da uomini: maggior concentrazione nel settore dei servizi (66,9% vs 55,7%), minori dimensioni (il 96,8% sono micro imprese fino a 9 addetti vs 94,7% delle maschili), forte diffusione nel Mezzogiorno (36,8% vs 33,7%). Le imprese femminili hanno però una minore capacità di sopravvivenza: a tre anni dalla costituzione, restano ancora aperte il 79,3% delle attività, rispetto all’83,9% di quelle a guida maschile, e dopo cinque anni, la quota delle imprese che sopravvivonoè del 68,1%, contro il 74,3% delle altre.

Più imprenditrici giovani e straniere

Nel secondo trimestre 2022, rispetto allo stesso periodo del 2021, il numero delle imprese femminili è rimasto sostanzialmente stabile, crescendo di 1.727 unità (+0,1%). Il confronto con lo scorso anno mostra un incremento delle imprese femminili soprattutto nell’industria (+0,3%) e nei servizi (+0,4%), tra le società di capitali (+2,9%), nel Mezzogiorno (+0,6%), tra le imprese straniere (+2,6%). Le imprese giovanili femminili sono poi il 10,5% del totale delle aziende condotte da donne, mentre l’imprenditoria giovanile pesa il 7,6% sull’insieme di quelle maschili. Inoltre, le imprenditrici di origine straniera tra le imprese femminili sono l’11,8%, a fronte del 10,4% di quelle condotte da uomini.

Un’inclinazione che va sostenuta e aiutata

“Di fronte alle grandi sfide poste dal PNRR al sistema produttivo nazionale, le donne italiane a capo di un’impresa stanno rispondendo positivamente, accelerando sul fronte degli investimenti digitali e in tecnologie più rispettose dell’ambiente – commenta Andrea Prete, presidente Unioncamere -. Ma questa inclinazione va sostenuta e aiutata. Le imprenditrici, infatti, sentono l’esigenza di migliorare la formazione alle nuove tecnologie 4.0 e green sia a livello scolastico sia universitario, avere un accesso più facile alle risorse finanziarie, semplificare le procedure amministrative. E chiedono anche una forte e costante attività di sensibilizzazione su questi temi, per comprenderne meglio la portata e gli effetti”.

Città resilienti e circolari: quanto sono sostenibili i capoluoghi italiani?

Il Rapporto SNPA, dal titolo Città in transizione: i capoluoghi italiani verso la sostenibilità ambientale, per la prima volta presenta una lettura dei trend ambientali delle 20 città capoluogo, oltre a Bolzano, nell’arco temporale di 5 anni. Le chiavi di lettura utilizzate dal Rapporto sono tre: vivibilità, circolarità e resilienza ai cambiamenti climatici, e fotografano la transizione dei capoluoghi italiani verso la sostenibilità urbana. Ma le perdite idriche, la fragilità del territorio e l’uso poco sostenibile del suolo rimangono i veri talloni d’Achille.

Più piste ciclabili, orti urbani e raccolta differenziata

Le città italiane diventano sempre più resilienti e green, la mobilità oggi è più sostenibile, con chilometri di piste ciclabili cittadine che raggiungono valori record a Torino, Milano e Bolzano, ma anche lo stile di vita è più attento all’ambiente, con l’aumento degli orti urbani. In particolare a Napoli, dove, dal 2011 al 2019 crescono del 1230%, da meno di un ettaro a circa 12. Significativi progressi poi si registrano nel cambio di mentalità sul concetto di rifiuto, che da scarto è sempre più concepito come una risorsa. Tra i capoluoghi è Trento a raggiungere la percentuale più alta di raccolta differenziata, ma gli aumenti importanti nel periodo 2015-2019 si registrano anche a Catanzaro (+577,1%), Potenza (+214,7%) e Palermo, che pur rimanendo ancora su valori sotto al 20% (17,4%), segna un aumento di circa il 115%.

Fragilità del territorio e uso corretto del suolo: i talloni d’Achille

C’è infatti ancora molto da fare in ambito cittadino quanto alla fragilità del territorio e l’uso corretto del suolo. La popolazione residente in aree a rischio idraulico medio varia significativamente dalle 191 persone di Potenza a quasi 183 mila di Firenze, mentre il consumo di suolo avanza senza sosta in quasi tutti i capoluoghi, e le infrastrutture verdi non segnalano incrementi significativi. A questi problemi si aggiunge anche il rischio sinkholes (o sprofondamenti) ormai presente in quasi tutte le città italiane, con Roma che con un totale di 1088 eventi dal 2010 al primo semestre del 2021, si conferma la capitale italiana ed europea delle voragini.

Ancora troppo elevate le perdite idriche

Tra le note dolenti anche quella delle perdite idriche, che nel 2018 restano sempre elevate nella maggior parte delle città campione, con alcuni casi in cui i valori superano il 50%.  Anche se con valori altalenanti, sono solo 8 le città che riducono le proprie perdite, con in testa Napoli, che passa dal 41,2% del 2012 al 31,6% del 2018. Si conferma, quindi, alto lo spreco di una risorsa naturale, che specialmente in questo 2022, vediamo sempre più minacciata dal cambiamento climatico.

In Italia salari più bassi d’Europa

I dati dell’Ocse sono sconcertanti: negli ultimi trent’anni l’Italia è l’unico paese in cui i salari annuali medi sono diminuiti, precisamente del 2,9%. Il paragone con i paesi europei segna una distanza enorme: in Germania i salari sono cresciuti del 33%, in Francia del 31%, in Belgio e in Austria del 25%, in Portogallo del 14% e in Spagna del 6%. I paesi scandinavi registrano poi il +63% della Svezia, il +39 della Danimarca e il +32% della Finlandia. Sulla questione salari, il clima è sempre più rovente attorno a Palazzo Chigi, e in attesa che il premier Mario Draghi convochi un tavolo con le parti sociali, questi dati aiutano a capire la situazione dell’Italia, fanalino di coda in Europa per i salari più bassi e le retribuzioni dei dipendenti.

Gli italiani guadagnano in media 8 euro l’ora in meno di tedeschi e olandesi

Tra i più colpiti dagli squilibri del mercato del lavoro italiano ci sono sicuramente i giovani. Secondo Eurostat, la media annuale degli stipendi europei della fascia 18-24 anni è 16.825 euro, e in Italia è 15.858 euro. Peggio fa la Spagna (14.085 euro), ma Francia (19.482), Paesi Bassi (23.778), Germania (23.858) e Belgio (25.617) sono decisamente superiori. Quanto alla paga oraria complessiva dei lavoratori, gli italiani guadagnano in media 8 euro l’ora in meno rispetto a tedeschi e olandesi. E non è il costo del lavoro a penalizzare il nostro sistema: consultando i numeri del 2021 il costo medio orario del lavoro in Italia è di 29,3 euro, considerando salari, contributi e altre tasse, mentre in Germania è 37,2 euro, in Francia 37,9, in Olanda 38,3, e in Belgio 41,6 euro.

Le ipotesi di Governo e sindacati

Al di là dell’aiuto da 200 euro nel cedolino di luglio per i redditi fino a 35mila euro e i bonus energetici già varati, il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha ipotizzato di detassare i rinnovi, visto che il 40% dei lavoratori italiani ha il contratto scaduto. Una misura che potrebbe essere finanziata, ad esempio, con il prelievo una tantum proposto da Landini sui redditi alti, o alzando la tassa sugli extraprofitti delle società energetiche. I sindacati avevano messo sul tavolo l’idea di tassare tutte le tranche di salario legate ai rinnovi contrattuale con un’aliquota al 10%, anziché al 33%.

“La via maestra resta quella della contrattazione collettiva”

Secondo i dati Eurostat in Italia lavora soltanto il 58,2% della popolazione in età di lavoro, contro una media europea del 68,4%, riporta Agenzia Dire. Per il ministro della PA Renato Brunetta e il giuslavorista Michele Tiraboschi “la via maestra sui salari resta quella della contrattazione collettiva, dentro, però, un percorso di reale riforma degli assetti contrattuali e delle dinamiche retributive coerente con le recenti nuove trasformazioni del lavoro. In questo contesto si giustificano anche le misure di incentivazione della contrattazione di produttività e del welfare aziendale, che tuttavia possono e debbono essere rivisitate in termini di maggiore effettività”.

Economy passion, come gli italiani trasformano gli hobby in business

Gli italiani sono campioni nel reinventarsi, e ancora una volta ne danno dimostrazione. Negli ultimi tempi, infatti, ha preso piede il fenomeno dell’economy passion, ovvero il tramutare il proprio hobby in una fonte di reddito. Questo trend è stato “spinto” anche dalla pandemia: la crisi sanitaria generata dal Covid-19 ha rafforzato lo spirito imprenditoriale degli italiani, accendendo la voglia di arricchire la propria vita lavorativa. Nel 2021, la creazione di società in Italia ha superato i livelli pre-pandemia, con 4.216 startup costituite, il 25% in più rispetto al 2020, secondo i dati pubblicati da Infocamere, ma soprattutto sono state aperte circa 549.500 nuove partite Iva con un incremento del 18,2% in confronto all’anno precedente. 

Quali sono gli ambiti di azione? 

A raccontare di più di questo originale fenomeno è un recente studio di Vista, riporta Adnkronos, che mostra che il 92% degli italiani ha convertito o vuole convertire la propria passione in un’attività complementare. Sono 3 su 10 gli italiani che hanno già trasformato il loro hobby in un’attività parallela. Il 13% dichiara addirittura di aver rassegnato le dimissioni dal posto di lavoro a tempo indeterminato negli ultimi 12 mesi o più per dedicarvisi pienamente. Mentre un altro 16% afferma di voler lasciare il lavoro principale nei prossimi 12 mesi per dedicarsi interamente al proprio hobby. ma quali sono le attività più gettonate? I risultati dello studio mostrano che gli hobby o centri di interesse che gli italiani hanno trasformato – o vorrebbero trasformare – in un’attività complementare sono: viaggi 35%; cucina 30%; cura degli animali 21%; arte, design e creatività 19,8%; alimentazione e benessere 17,6%. Anche se non mancano amanti di fotografia e video (17%), del giardinaggio (16%), forma fisica e fitness (15,4%), informatica e tecnologia (14,8%), o dell’intrattenimento (12,8%), tra gli altri.

Attività complementari al lavoro principale

Secondo Richard Moody, direttore generale Paesi Nordici, Centro e Sud Europa di Vista, “nonostante la crisi, gli italiani non solo non hanno smesso di fare affari, ma hanno sviluppato o stanno sviluppando nuove attività complementari ai loro attuali lavori, ma più legati a hobby e passioni. Se quasi il 33% ha già fatto il grande passo, e il 59,5% lo sta valutando, ci rendiamo conto che questi nuovi imprenditori possono perdersi rapidamente, sia nell’aspetto legale e normativo, ma anche in come promuovere e sviluppare il loro business. Infatti, quasi il 23% non conosce i requisiti legali o finanziari per avviare la propria attività ed il 21% non ha sufficienti conoscenze di marketing e design per poterla promuovere. Ed è normale, poiché è impensabile che la stessa persona sia esperta in tutti i campi necessari. Per questo Vista vuole essere il partner di fiducia a cui possono rivolgersi tutti gli imprenditori e le piccole imprese che hanno bisogno di sviluppare strategie di marketing, design o stampa”, conclude Moody.Tra chi ha già corso il rischio di fare un primo passo in avanti per avviare un’attività complementare troviamo un equilibrio tra uomini (52,82%) e donne (47,18%), per lo più giovani, tra i 25 e i 34 anni (28%), seguiti dalla fascia di età tra i 35 e i 44 anni (21,8%). Tra gli intervistati che dichiarano di non avere ancora un’attività complementare ma di volerne una, troviamo invece maggior parità tra uomini e donne ma in fasce d’età leggermente più mature, essendo quella tra i 35 e i 44 anni quella predominante (29%) seguita da quella tra i 45 ed i 54 anni (28%). 

Paradosso giovani: calano di numero, ma non trovano lavoro

I giovani italiani calano numericamente, ma non riescono a trovare lavoro: è il cosiddetto ‘paradosso giovani’. Senza un dialogo strutturale fra scuola e imprese e nuove politiche di accompagnamento nelle fasi di transizione, non si riuscirà a garantire alle nuove generazioni un’offerta di lavoro non precario. È quanto è emerso durante un dibattito relativo all’ultimo numero dell’Osservatorio Cida-Adapt dedicato al lavoro giovanile.
“L’Osservatorio trimestrale sul mondo del lavoro – spiega Mario Mantovani, presidente di Cida, confederazione dei dirigenti pubblici e privati – nasce dall’esigenza di una lettura non convenzionale dei dati statistici per avere una visione delle dinamiche occupazionali più aderente alla realtà e fornire ai manager uno strumento utile ai loro processi decisionali e organizzativi”.

Le ‘medie’ statistiche sono poco adatte a leggere una realtà molto differenziata

“I dati – aggiunge Mantovani – una volta ‘spacchettati’ e analizzati mostrano, ad esempio, la scarsa affidabilità delle ‘medie’ statistiche, poco adatte a leggere una realtà molto differenziata sul territorio. Nell’Osservatorio ci si è concentrati sulla fascia d’età 25-34 anni, perché in quella precedente, 15-24 anni, l’incidenza di chi studia è troppo alta per poterne ricavare dati realistici su disoccupazione e precariato”.

In 10 anni i 25-34enni sono diminuiti di circa un milione

“In 10 anni, dal 2010 al 2020, la coorte dei 25-34enni è diminuita di circa un milione di unità – ribadisce Mantovani -. Una tendenza che non sembra arrestarsi e che, comunque, può essere invertita solo in un lungo arco di tempo. Normalmente, meno giovani domandano lavoro, più dovrebbe essere facile trovarlo. È qui che troviamo il ‘paradosso’ del lavoro giovanile, visto che il nostro tasso di occupazione in quella fascia d’età è troppo basso nel confronto con i partner europei: insomma i giovani diminuiscono, ma l’attuale mercato del lavoro non riesce ad assorbirli. Lavoro giovanile scarso e anche caratterizzato da un’alta incidenza di contratti a termine che tende a renderlo sostanzialmente precario e poco pagato”.

Riallacciare il dialogo fra scuola e lavoro e investire sulla formazione

“Come Cida – sottolinea Mantovani – esortiamo il decisore politico a intervenire su queste basi, su questi dati rappresentativi di una realtà che spesso sfugge a un’analisi superficiale. I numeri indicano le strade da seguire: riallacciando il dialogo fra scuola e lavoro, gestendo le fasi di transizione, investendo sulla formazione continua che deve accompagnare tutto l’arco della vita lavorativa. Come manager, siamo consapevoli di quanto sia importante la qualità del lavoro che va perseguita investendo sulle risorse umane e che va adeguatamente retribuita. Anche quello delle retribuzioni, infatti, è un tema che va messo al centro di quel ‘patto sociale’ proposto dal Governo: l’Italia non può essere un Paese ‘low cost’ con lavoro poco qualificato, sostanzialmente privo di formazione, distante dal mondo dell’università e della ricerca e poco retribuito”.

Stare bene, una questione vitale

Per poter vivere con pienezza e soddisfazione la propria vita, ‘stare bene’ è una questione vitale.
L’indicatore raccolto nello studio Benessere, elaborato dalla piattaforma Knowledge Building di Eumetra, misura l’andamento relativo al benessere e soddisfazione degli italiani. E nelle rilevazioni degli ultimi due anni, a fronte di una porzione sostanzialmente residuale di popolazione che si dichiara ‘pienamente soddisfatta’ della propria vita, peraltro in ulteriore contrazione, aumenta quella che assegna un valore di soddisfazione alla propria vita appena sufficiente, o al di sotto della sufficienza.
Da oltre due anni stiamo vivendo un periodo funestato da emergenze sanitarie, e di recente, anche belliche, che inevitabilmente hanno inciso e tuttora incidono sulla qualità della vita. 

Più colpita la popolazione femminile

Questa rappresentazione conterrebbe già di per sé indicazioni allarmanti, soprattutto a fronte del prolungarsi e dell’aggravarsi delle emergenze esterne generate nel corso del 2022. Occorre tuttavia approfondire, dal momento che i dati richiedono di prestare attenzione anche alle dinamiche sociodemografiche interne a questo disagio crescente. In primo luogo, il fenomeno risulta colpire in misura più significativa la popolazione femminile, già in partenza meno soddisfatta di quella maschile, che pur in flessione, si stabilizza su valori più alti. In un’ipotesi di proiezione futura che pare probabile, ovvero qualora l’edizione 2022 dello studio confermi la tendenza in atto, sarà necessario fare alcune riflessioni di carattere sociale ed economico.

Un progressivo ‘affaticamento’ per i 35-55enni

La fascia di popolazione che risulta particolarmente interessata da questo progressivo ‘affaticamento’, è quella di età tra i 35 e i 55 anni, che registra in assoluto i valori peggiori di soddisfazione per la propria vita. Proprio quella che idealmente dovrebbe corrispondere a individui dalla massima capacità produttiva, reddituale, e di spesa. Al contrario, i più giovani e i meno giovani, in questo momento complicato, attribuiscono alla loro vita un livello di soddisfazione maggiore rispetto a quello assegnato da chi si trova nel ‘cuore’ della propria vita. Pur attraversando per ragioni totalmente diverse stagioni della vita caratterizzate da un’elevata incertezza nel futuro (per i più giovani difficoltà relazionali, e per i più anziani, problemi di salute), mostrano più resilienza rispetto alla fascia centrale di età.

Quando mancano le condizioni per vivere il presente e progettare il futuro

Si tratta di segnali di disagio crescenti, e rispetto ai quali si possono certamente ipotizzare diverse determinanti per le quali, allo stesso tempo, non sembrano disponibili almeno nell’immediato risposte o soluzioni dirette. Ecco perché Eumetra ha iniziato a ragionare dell’importanza dello stare bene.
‘Sentire’ di disporre al massimo delle proprie risorse, mentali, fisiche, affettive, sociali, e lavorative, è condizione per vivere il presente e progettare il futuro liberamente, secondo le legittime aspirazioni e negli ambiti concessi dalle situazioni individuali. Una condizione che riguarda tutti e allo stesso tempo ognuno, secondo le proprie individualità, situazioni, reazioni soggettive al contesto, ed è condizione esistenzialmente critica. Si fa cioè più importante, ma più complicata, in epoche caratterizzate da continue emergenze.

PNRR, solo 1 impresa su 3 è pronta

Il PNRR è una grandissima occasione per l’imprenditoria italiana, ma solo una impresa su 3 è pronta a cogliere le opportunità delle nuove risorse espressamente dedicate al sistema produttivo dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, come transizione 4.0 ed economia circolare. Il 16%, infatti, si è già attivato per aderire ai progetti del Piano, mentre un altro 13% ha in programma di farlo. Ma più del 70% è fermo al palo, senza, al momento, interessarsi alle molteplici occasioni di sviluppo che si stanno aprendo. E’ quanto mostra una indagine diffusa da Unioncamere con dati elaborati dal Centro studi Guglielmo Tagliacarne.

Obiettivo far conoscere alle Pmi le opportunità del piano

“I dati confermano la necessità di lavorare per diffondere e far conoscere alle imprese, soprattutto quelle più piccole, le misure messe in campo dal Governo nel green e nel digitale”, ha sottolineato il presidente di Unioncamere, Andrea Prete. “L’80% delle imprese di minori dimensioni non ha nemmeno in programma di avvalersi di queste risorse, contro il 50% delle aziende medio grandi.  Le Camere di commercio hanno ben in mente come farsi parte attiva per lo sviluppo del Paese e contribuire al cambiamento innescato dal PNRR: possiamo essere uno strumento prezioso per fare conoscere alle imprese le enormi opportunità legate alle nuove risorse e per mettere a terra molte delle misure chiave previste nel Piano”. 
“Inoltre – ha ribadito Prete – una indagine del Centro studi Tagliacarne rivela che una riduzione di un terzo del tempo dedicato dalle risorse umane interne alle imprese agli adempimenti burocratici, reimpiegato nelle attività produttive, comporterebbe un aumento della produttività aziendale tra il +0,5% e il +1,1%. “Per questo – ha concluso – stiamo lavorando attivamente per definire proposte concrete che possano contribuire in tempi rapidi al processo di semplificazione di cui abbiamo davvero bisogno”.

Le ragioni dell’incertezza

D’altro canto, sulla situazione attuale incide certamente anche il clima di incertezza legato allo shock della guerra in Ucraina. Per quasi 9 imprese su 10 l’impatto del conflitto in corso sarà alto, soprattutto a causa dell’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime e semilavorati. Quasi una impresa su 2 ha problemi di approvvigionamento di materie prime e una su 5 di approvvigionamento di energia.  L’aumento dell’incertezza incide sulla natalità delle imprese: le ultime indicazioni sulle iscrizioni al Registro delle Camere di commercio mostrano che quando il clima di fiducia si riduce di un punto, la natalità delle imprese si contrae di mezzo punto. Negli ultimi due anni (2020-2021) sono state create 81mila imprese in meno rispetto al livello pre-pandemia del 2019, di cui 26mila in meno giovanili e 32mila in meno femminili.

Gli italiani scelgono la pace o preferiscono l’aria condizionata?

Tra la pace e il fresco dell’aria condizionata cosa scelgono gli italiani? All’alternativa posta dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, “Preferiamo la pace o il condizionatore acceso?”, la maggior parte dei nostri connazionali non ha dubbi, e sembra disposta a spegnere il condizionatore.
Questo è quanto emerge dall’indagine commissionata da Facile.it agli istituti di ricerca mUp Research e Norstat, e realizzata su un campione rappresentativo della popolazione nazionale. In particolare, alla domanda posta da Draghi il 73% degli italiani che posseggono un condizionatore ha dichiarato di essere disposto a spegnere il condizionatore per tutta la durata dell’estate, se questa scelta potrebbe aiutare il Paese a raggiungere l’indipendenza dal gas russo.

Ridurre l’uso di energia elettrica e gas per raggiungere l’indipendenza energetica

Non è tutto, l’indagine di Facile.it ha messo in evidenza anche un altro aspetto, ovvero qualora il Governo lo richiedesse, il 56% degli intervistati sarebbe disposto anche a ridurre l’uso personale di energia elettrica e gas in casa propria. Questo, per aiutare l’Italia a raggiungere l’indipendenza energetica dalla Russia.

Over 65 e 18-24enni sono i più inclini a fare sacrifici

I più inclini a fare sacrifici, forse perché hanno già vissuto anni di austerity, sono risultati essere gli over 65, con il 60% di risposte positive, e gli intervistati con età compresa tra i 55 e i 64 anni, con il 62%. Curiosamente, però, anche i giovani con età compresa tra i 18 e i 24 anni nel 59% dei casi hanno risposto positivamente, forse perché più attenti alle tematiche ambientali rispetto alle generazioni più mature. Se quindi, da un lato, più di 21 milioni di cittadini italiani sono disposti a rinunciare al condizionatore, dall’altro 8 milioni hanno affermato di non essere disposti a fare questo genere di sacrificio.

Per 8 milioni di italiani la scelta di staccarsi dal gas russo non dovrebbe gravare sulle famiglie

Ma qual è il motivo per il quale una quota di cittadini non è propensa a fare questo sacrificio? Secondo l’indagine di Facile.it, riporta Adnkronos, il 50% di chi ha dichiarato di essere contrario sostiene che “la scelta di staccarsi dal gas russo non dovrebbe gravare sulle famiglie”, mentre il 46% lo ritiene un sacrificio inutile. Qualcosa di concreto, in realtà, gli italiani sembrano averlo già fatto, tanto che 8 intervistati su 10 hanno dichiarato che da quando è iniziato il conflitto in Ucraina hanno cercato di consumare meno energia elettrica e gas, non fosse altro per risparmiare sulle bollette. Questa, in particolare, la motivazione per il 67% degli intervistati.

Italiani, oltre il 50% non è pronto a lasciare il proprio lavoro

Il 56,2% degli occupati non è propenso a lasciare il proprio lavoro, nella convinzione che non troverebbe un impiego migliore. La percentuale sale al 62,2% tra i 35-64enni e al 63,3% tra gli operai. E’ vero che nei primi nove mesi del 2021 si registrano 1.362.000 dimissioni volontarie, con un incremento del 29,7% rispetto allo stesso periodo del 2020. Ma proprio nel 2020, quando a causa del Covid il mercato del lavoro si era paralizzato, si era verificato un picco negativo di dimissioni: solo 1.050.000 nei primi tre trimestri, ovvero -18,0% rispetto al 2019. Si conferma però un trend di più lungo periodo di crescita delle dimissioni legato all’aumento della precarietà dei rapporti di lavoro. Sono solo alcuni dei dati contenuti nel 5° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, realizzato in collaborazione con Eudaimon, leader nei servizi per il welfare aziendale, con il contributo di Credem, Edison e Michelin.

Vince il pragmatismo sulle “dimissioni al buio”

Tra i lavoratori italiani il pragmatismo vince sulla tentazione della Great Resignation, cioè le dimissioni al buio per cercare un impiego più gratificante o per fare altro. Fa più paura l’idea di ritrovarsi impantanati nella precarietà del mercato del lavoro. Eppure l’82,3% dei lavoratori (l’86% tra i giovani, l’88,8% tra gli operai) si dice insoddisfatto della propria occupazione e ritiene di meritare di più. Retribuzioni che non crescono da troppo tempo. Il 58,1% dei lavoratori ritiene di ricevere una retribuzione non adeguata al lavoro svolto. La percezione è confermata dalle statistiche ufficiali: negli ultimi vent’anni le retribuzioni medie lorde annue nel nostro Paese si sono ridotte del 3,6% in termini reali (al netto dell’inflazione), mentre in Germania sono aumentate del 17,9% e in Francia del 17,5%. Pensando alla propria occupazione, il 68,8% dei lavoratori si sente meno sicuro rispetto a due anni fa (la percentuale sale al 72,0% tra gli operai e al 76,8% tra le donne). Nell’ultimo biennio il 66,7% dei lavoratori (il 71,8% tra i millennial) ha vissuto uno stress aggiuntivo per il lavoro e il 73,8% teme che in futuro dovrà fronteggiare nuove emergenze lavorative, con impatti rilevanti sulla propria vita quotidiana. Il lavoro, insomma, non paga abbastanza, non dà le certezze del passato, è fonte di tensione.
Per il 51,3% degli occupati il proprio lavoro è molto cambiato durante la pandemia. Il digitale è stato determinante, ma non indolore. Infatti, complessivamente il 58% ha riscontrato difficoltà nell’utilizzo dei dispositivi digitali. In particolare, il 55,3% nella partecipazione ai meeting online e il 46,1% con la posta elettronica. Sullo smart working i lavoratori italiani si dividono: il 25,1% non vorrebbe farlo, il 32,9% è soddisfatto e vorrebbe proseguire, il 42% opterebbe per una soluzione ibrida.

Poco tempo libero

il 39,7% degli occupati afferma di non disporre di tempo libero in modo sufficiente (e la percentuale sale al 45,1% tra gli esecutivi), il 23% prevede un ulteriore peggioramento nel futuro.
Chiare le richieste dei lavoratori alle aziende: il 91,2% dei lavoratori vorrebbe retribuzioni più alte, l’86,5% più servizi di welfare aziendale su ambiti come la sanità e l’assistenza per i figli, il 75,2% maggiore supporto nel rispondere ai bisogni sociali quali la non autosufficienza di un familiare, la previdenza, l’istruzione dei figli. In sintesi: più soldi, più welfare aziendale, aiuto in situazioni di vita difficili. Intanto aumentano le aziende che puntano sugli strumenti del welfare aziendale. Per il 62,5% di un panel di responsabili delle risorse umane di grandi imprese il welfare aziendale è una priorità ed il 71,9% si dice pronto ad attivare servizi ad hoc per informare nel merito i lavoratori e rispondere ai loro bisogni. 

Il ruolo del digitale nel retail 

Meno male che c’è il digitale: proprio grazie all’eCommerce il retail è riuscito ad attraversare e superare l’onda della pandemia. A confermare questa tendenza c’è l’Osservatorio Innovazione Digitale nel Retail della dalla School of Management del Politecnico di Milano, che ha registrato un incremento degli investimenti in digitale dei retailer, con l’incidenza sul fatturato che è passata dal 2% nel 2020 al 2,5% nel 2021. Non solo: cresce anche l’importanza dell’eCommerce nel Retail italiano. Il canale online, pur rimanendo secondario in termini di consumi rispetto all’offline (abilita solo il 10% degli acquisti a valore totali), è sempre più motore di innovazione e di crescita: è infatti responsabile di circa il 20% dell’incremento totale dei consumi. Il fermento digitale è dimostrato anche dal fatto che nel 2021 oltre l’85% dei primi 300 retailer italiani per fatturato è presente online, anche tramite modelli di vendita che integrano digitale e negozio fisico: i più diffusi sono click&collect (65%), reso offline degli ordini eCommerce (37%) e verifica online della disponibilità di prodotti in negozio (30%).

Un nuovo modello di commercio omnicanale

Per realizzare un nuovo modello di commercio omnicanalei top retailer italiani sono impegnati anche sul fronte del back-end con lo scopo di abilitare integrazione di dati e operations. Il cantiere della Data Strategy omnicanale si fonda essenzialmente sull’utilizzo dei dati raccolti in maniera integrata tra i diversi touchpoint presidiati, come canali di vendita e relazione, sistemi informativi e fonti esterne. L’analisi condotta sui principali retailer italiani per fatturato ha fatto emergere che circa la metà del campione si trova allo stadio più avanzato: i dati vengono utilizzati per attivare iniziative di comunicazione, marketing e vendita personalizzate su specifici cluster e su singoli clienti. Per quanto riguarda le operations, nel 2021 il 39% dei top retailer italiani gestisce l’inventario in maniera integrata tra i diversi canali di vendita e il 32% possiede un sistema centralizzato di order management. Il 35% del campione, inoltre, utilizza tutte le strutture a disposizione (hub di distribuzione, magazzini, negozi fisici) per evadere gli ordini provenienti dai diversi canali.

Gli investimenti in tecnologia digitale nel back-end 

Durante il 2021, gli investimenti in tecnologia digitale nel back-end tra i top retailer italiani sono stati funzionali, in primis, all’approfondimento della conoscenza del cliente in chiave omnicanale. I sistemi di business intelligence analytics sono stati potenziati dal 17% dei player (implementati complessivamente dal 75% del campione) e il 9% ha lavorato sulle soluzioni di customer relationship management (già presenti nel 66% dei casi), con l’obiettivo di integrare le informazioni derivanti da diversi canali per comprendere esigenze e abitudini dei consumatori, abituali e non. Allo stesso tempo sono state implementate innovazioni volte a ottimizzare attività e processi lungo la supply chain: il 13% dei retailer ha adottato soluzioni all’interno dei magazzini (58%) per automatizzarne la gestione e incrementarne le performance; il 9% ha infine potenziato i sistemi automatizzati di demand, inventory e distribution planning (51%), per effettuare previsioni più accurate della domanda e semplificare l’intero processo distributivo.